Collezione

Gli esordi
1940-1954

Il giovane Toti Scialoja è in contatto, fin dalla sua primissima attività artistica, con la Galleria della Cometa di Roma, guidata da Corrado Cagli e Libero de Libero e voluta dalla contessa Mimì Pecci-Blunt, vera fucina, nella seconda metà degli anni Trenta, della nuova arte tonalista ed espressionista.
Tramite de Libero e soprattutto Cagli, l’artista inizia a conoscere e a studiare direttamente le nuove modalità costruttive dell’arte di Mafai, Mirko, Afro, Levi, Guttuso e altri che, insieme allo stesso Cagli, diventeranno in breve la sua primaria cognizione stilistica di riferimento. Una serie di influenze che lo accompagneranno nella sua evoluzione artistica e nella produzione di molti disegni prima e piccole tele figurative poi, caratterizzate da un segno sofferto sostenuto da un colore acido, frammentato, molto timbrico. Un colore costruito per mezzo di minime pennellate sovrapposte da cui sembra però già trasparire il successivo superamento (metà degli anni Quaranta) del cromatismo tipico della stessa Scuola Romana, con una produzione pittorica che risente ed evidenzia le influenze internazionali di Scialoja. Ensor, Soutine e Van Gogh in particolare.
Ma la ricerca dell’artista continua, portandolo a sovrapporre due sue passioni pittoriche: il rigorismo asettico della pittura di Morandi, con il quale Scialoja ha anche una interessante corrispondenza, e la decostruzione della forma delle opere del cubismo analitico di Picasso e Braque.
Nella pittura di questo periodo (fine anni Quaranta-inizio Cinquanta) Scialoja, infatti, tende sempre più ad occultare la forma, frantumare gli oggetti e il dato visibile per quel «comporre astratto», come l’artista poi precisa e che definirà, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, il suo nuovo, originale linguaggio artistico.

Le impronte
1955-1964

Dalla metà degli anni Cinquanta Scialoja abbandona progressivamente la figurazione per l’astrazione, realizzata però senza il pennello, sostituito da uno straccio intriso di colore. «Dipingere con lo straccio mi permetteva una comunicazione più diretta e impulsiva», scriverà in seguito l’artista. Abbandona anche il cavalletto, posizionando la tela, ora di canapa grezza e spessa, in orizzontale e inchiodata al suolo. La medesima cosa fa con l’olio e la tempera, sostituiti da un pigmento materico rafforzato da un collante vinilico. La mutazione artistica di Scialoja però non è solo limitata alla concretezza del dipingere ma è anche concettuale e teorica, tanto che l’artista finisce per abbinare al suo gesto pittorico la nozione di automatismo del gesto stesso. «Conoscere il modo del gesto, non il significato del gesto», scrive nel maggio del 1956, uno degli anni fondamentali per conoscere la sua arte, durante il quale risiede per la prima volta a New York (ottobre-dicembre) e frequenta De Kooning, Rothko, Guston, Motherwell, visita lo studio di Kline, la casa di Pollock, studia la pittura di Gorky. Un periodo di grande entusiasmo, durante il quale prende forma una nuova e più libera fase creativa di Scialoja, definita dall’uso della tecnica dello “stampaggio” – «Riempire di colore un foglio, rovesciarlo sulla tela e stamparlo battendo forte con le mani» – e dalla creazione delle prime Impronte (a Procida, nell’estate del 1957) che per lungo tempo diverranno la sua più personale cifra stilistica. Impronte seriali, sincopate, sovrapposte, sdoppiate, in una continua scelta, automatica e liberatoria, del gesto pittorico che lo porterà a sviluppare sempre nuove e diverse soluzioni pittoriche.

Dalle “quantità cromatiche” agli anni Novanta
1965-1998

Nella seconda metà degli anni Sessanta le Impronte vengono, come lo stesso Scialoja afferma «aggiornate», con la sovrapposizione di altri, alternativi materiali. Carte, giornali, corde, garze, merletti per le tende, pizzi, ecc., a loro volta intrisi di colore, stampati e alternati alle Impronte stesse. Soluzioni molto proficue sul piano visivo ma meno dal punto di vista concettuale e personale di Scialoja, tanto che, già dall’inizio degli anni Settanta l’artista, non più soddisfatto della sua ricerca, inizia a focalizzare un nuovo percorso stilistico, più concettualizzato rispetto al precedente. Il suo segno, il gesto automatico delle Impronte, è così trasformato in minimali strutture verticali, concrete, pure forme-colore «irrigidite», come le definisce Scialoja, da una pennellata ferma e continua, di sicuro meno fisica ed espressiva rispetto al passato. Consolidate forme a campiture cromatiche continue, si ripetono e si accumulano così nelle nuove tele di Scialoja. «Quantità cromatiche», come lo stesso artista definisce questa serie, replicate, a volte giustapposte, con finite variazioni di accostamenti cromatici. Strutture e colore che lo porteranno però a ricercare nuove soluzioni ritmiche e formali, decisamente più segniche e, di nuovo, gestuali (seconda metà anni Ottanta). Le pennellate tornano così a esplodere nella carica dinamica di un nuovo colore. Una nuova, o per meglio dire ritrovata verità e libertà creativa che lo assolve definitivamente dal precedente formalismo geometrico e che Scialoja seguirà e rivendicherà fino alle grandi tele degli anni Novanta. Opere massicce e frementi, dalle dimensioni straordinarie sempre costruite rincorrendo e affrontando, anche fisicamente, lo spazio e la materia, proprio come nella prima Impronta dell’estate del ’57, ma con una nuova e inusuale tensione e ansia creativa che Scialoja non sembra ancora riuscire a sopire, domare.

LA COLLEZIONE PRIVATA

La collezione con le opere degli amici di Toti Scialoja e di sua moglie Gabriella Drudi va concepita come una sorta di ideale “danza corale” a cui partecipano artisti di generazioni diverse, scambiando con la coppia esperienze creative e conquiste tecniche, lungo un viaggio che da Roma giunge a New York, andata e ritorno. Si crea così un dialogo illuminante fra le opere dello stesso Scialoja e quelle dei suoi amici artisti, con una rete di rapporti che offre anche la possibilità di capire meglio tanti snodi, scelte e predilezioni dell’artista romano dal punto di vista pittorico.
Si va dalla seconda metà degli anni trenta (con le opere di Mirko e Alberto Savinio) al gruppo battezzato da Cesare Brandi dei “quattro fuori strada” (oltre allo stesso Scialoja, Ciarrocchi, Stradone e Sadun. Di quest’ultimo, in particolare, la collezione Scialoja-Drudi conserva ben olii, tempere e chine, in larga prevalenza risalenti agli anni Quaranta; fra i dipinti, un Ritratto di Don Luigi e il Ritratto di Brandi) di fine anni Quaranta.
Un piccolo olio di Afro del 1948 introduce nella collezione la testimonianza dei nuovi rapporti intrecciati da Scialoja che aderisce all’astratto: Afro, ancora, Burri, Leoncillo e ancora i più giovani Perilli e Novelli, fra i molti altri. Agli anni Settanta risalgono le carte (a matita, pastello, tempera) e le sculture di Melotti, fra cui la splendida Beatrice C., dedicata a Gabriella Drudi.
La sezione italiana della collezione è chiusa da alcune opere di Nunzio, allievo carissimo e collaboratore di Scialoja negli anni Ottanta.

Capitolo fondamentale è quello degli amici americani, partendo dall’ammirazione di Scialoja per l’opera di Gorky e arrivando così a Calder, de Kooning, Guston, Motherwell, Marca-Relli, Twombly, tra gli altri. Né manca un cenno sommario alla sua feconda attività di docente dell’Accademia di Belle Arti di Roma esemplificata parzialmente dalle opere di Battaglia, Fioroni e Gardini, suoi allievi eccellenti della “prima generazione”, nella seconda metà degli anni cinquanta.
Questa collezione così intima ci parla soprattutto delle radici artistiche di Scialoja ed è lo specchio di infiniti incontri, esperienze, viaggi, scambi intellettuali ed affettivi, che molto spesso hanno avuto come co-protagonista la moglie Gabriella Drudi, insigne scrittrice, traduttrice e critica d’arte a cui sono state donate diverse opere.

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